La lettera scomparsa

Il giorno prima di morire Stefano Cucchi ha scritto una lettera dal suo letto di ospedale. Quella lettera però è scomparsa: non è agli atti del pm, non è nell’elenco degli effetti personali di Stefano consegnato alla famiglia, e non risulta essere stata mai spedita. Cosa aveva scritto Stefano? E a chi? A rivelare l’esistenza della missiva è la capoposto del reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove Stefano, 32 anni, è morto dopo una settimana di agonia. Era stato fermato dai carabinieri il 15 ottobre per spaccio di droga. Le dichiarazioni di Laura Signorelli, vicesovrintendente della polizia penitenziala presso il carcere di Rebibbia e distaccata al Pertini, sono state raccolte dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che sul caso Cucchi ha svolto un’ indagine meticolosa. Da cui emergono errori, falle e orrori. E qualche particolare che merita di essere approfondito.
Per esempio, la lettera che Stefano ha scritto il pomeriggio del 21 ottobre. Quel giorno il ragazzo «chiamava in continuazione», chiedeva sigarette, di parlare con i volontari del carcere e con gli operatori della comunità Ceis dove, l’anno scorso, aveva affrontato un percorso di disintossicazione. «Ritenni opportuno – dice Sigonorelli – di andare a parlare direttamente con lui suggerendogli, al fine di accelerare i tempi, invece di compilare il modulo con la richiesta, che avrebbe dovuto ottenere l’autorizzazione del magistrato in quanto lui era giudicabile, di scrivere una lettera direttamente alla comunità». E’ la stessa Signorelli che consegna a Stefano un foglio, una busta e un francobollo, tutto materiale che gli operatori del Vic (volontari in carcere) lasciano nel reparto per i detenuti. «La lettera – continua la sovrintendente – ho visto che la scriveva, non so però se è stata inoltrata in quanto ho finito il turno alle 23 e la mattina successiva il detenuto è deceduto». I medici si accorgono che Stefano è morto intorno alle 6. E la lettera che fine ha fatto? Chi l’ha presa? Cosa voleva comunicare Stefano ai volontari del Ceis? Ed è proprio a loro che stava scrivendo? La volontaria del carcere che ha parlato con Stefano quel pomeriggio non ha avuto alcuna lettera in consegna (e d’altronde non avrebbe potuto). Da quanto risulta, il Ceis non ha ricevuto nulla. «E’ l’ennesimo buco nero», commenta l’avvocato della famiglia Fabio Anselmo. «Non posso non pensare allo stato d’animo di Stefano mentre scriveva quella lettera – dice la sorella Ilaria – il suo ultimo disperato tentativo di entrare in contatto con qualcuno che lo aiutasse a porre fine alle sue sofferenze».
La sovrintendente non è ancora stata ascoltata dal pm Vincenzo Barba che segue l’inchiesta. Al momento in Procura il lavoro è fermo e riprenderà alla fine della settimana anche con l’interrogatorio di altri detenuti che la mattina del 16 ottobre erano rinchiusi nelle celle di sicurezza dove Cucchi sarebbe stato pestato (indagati sono tre agenti della penitenziaria, insieme a sei medici del Pertini). Ma nelle 348 pagine della relazione del Dap vengono fuori innumerevoli particolari sul trattamento di Stefano, probabilmente non molto dissimile da quello che viene riservato a tutti i detenuti, specialmente se considerati tossicodipendenti. Sono ancora le dichiarazioni di Signorelli a lasciare sconcertati: è lei che il giorno dopo il ricovero accetta il cambio di biancheria portato dalla famiglia Cucchi. Quando, tra giorni dopo, entra nella stanza per consegnare la busta nota «che la biancheria si trovava riposto sul tavolo e che il detenuto non l’aveva neanche toccata». Come se una persona con due vertebre rotte dovesse cambiarsi da sola. Infatti Stefano morirà con addosso gli stessi abiti del giorno dell’arresto. E’ la stessa Signorelli, inoltre, a incontrare i genitori di Stefano il giorno dopo il ricovero, ed è lei la persona – spesso descritta dai Cucchi – che li rimanda indietro dicendo che anche per parlare con i medici è necessario avere l’autorizzazione del magistrato. La sovrintendente dichiara al Dap di non aver capito, in quell’occasione, che si trattava dei genitori del detenuto. «Non è vero – dichiara Giovanni Cucchi, il padre di Stefano – ci qualificammo e mostrammo anche i nostri documenti». Cinzia Gubbini (il manifesto)

Quinews

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