Questa foto è oramai un lontanto e sbiadito ricordo

La foto in cui Gianfranco Fini, che ha cominciato la sua brillante carriera politica come “figlio prediletto” del defunto Giorgio Almirante, redattore della rivista “La difesa della razza”, saluta romanamente è oramai un lontano e sbiadito ricordo. Come ricordi lontani e sbiaditi appaiono le sue parole pronunciate nel 1994 in cui definiva Mussolini, l’uomo delle leggi razziali modellate su quelle hitleriane, il più grande statista del secolo, o quelle di esultanza per l’avanzata in Francia di Jean Marie Le Pen. Le dichiarazioni di oggi ne sono una riprova. Addio al fascismo, dunque. Certo è che la metamorfosi di Fini, oggi presidente della Camera dei Deputati, non è stata indolore. Se è vero come è vero, sull’argomento, ogni suo gesto ha provocato smottamenti politici e scissioni all’interno di An, è facile prevedere che anche questa volta il j’accuse alla Chiesa di Fini non passerà inosservato.

Le sue critiche alla Chiesa – “Non fece abbastanza contro le leggi razziali” – vanno lette, soprattutto, in chiave ebraica, come l’ennesima, fondamentale, forse decisiva, rottura con la sua tradizione politica e di apertura nei confronti della comunità ebraica romana e nazionale.
Le tappe della ‘conversione’ sono tante e tutte studiate con cura: l’11 dicembre del 1993, quando è in corsa per diventare sindaco di Roma, fece sapere di esser andato, ma in segreto, alle Fosse Ardeatine. “Il fascismo – disse – è irrevocabilmente consegnato alla storia”. Sei mesi dopo, il 16 giugno 1994, al quotidiano Yediot Ahronot aggiunse che le leggi razziali proclamate dal fascismo nel ’38 “furono causa di “atrocità”. Nel 1995 si passa per Fiuggi, dove il congresso che trasforma l’Msi in Alleanza Nazionale approva un emendamento contro razzismo e antisemitismo, presentato da Enzo Palmesano e illustrato dal palco da Maurizio Gasparri. Lo stesso Fini sale sul palco per chiedere all’assemblea di votarlo. E’ l’inizio di una strategia mediatica di “accreditamento” ben definita. Il 19 febbraio 1999 approda nel luogo più tragico della storia ebraica: Auschwitz. Il leader di An visita il lager, cita Primo Levi e scrive sul diario: “Qui l’uomo si sente infinitamente piccolo, perché nessuna tragedia può essere più grande dello sterminio e dell’Olocausto”. Il 24 gennaio 2002, partecipa alla giornata della Memoria – “Oggi siamo qui perché la storia non si ripeta, perché mai più si compiano simili mostruosità” – e quattro mesi dopo, il 15 aprile 2002, manda una mail di solidarietà agli organizzatori dell’Israele Day. Nell’estate successiva, davanti alla profanazione del cimitero ebraico di Roma, parla di “infamia che suscita orrore e offende le coscienze di tutti”; quindi, riapre il delicato capitolo delle leggi razziali. “Chiedo perdono come italiano”. Così dice al quotidiano israeliano Haaretz. E’ il 12 settembre 2002. E’ di più, molto di più, di quell'”hanno prodotto atrocità” pronunciato anni prima. Anche se il chiedere scusa “come italiano” – e non come erede della tradizione politica del fascismo – annacqua la portata di quella presa di posizione. In quella stessa intervista Fini ribadisce di non aver nulla a che fare con Le Pen, Haider e l’estrema destra europea. Nel novembre del 2003, in qualità di ministro degli esteri, si reca al sacrario della Shoah, lo Yad Vashem di Gerusalemme, l’Istituto per la memoria dei Martiri e degli Eroi dell’Olocausto, dove condanna senza appello il fascismo.

Edgardo Fulgente

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