Vermicino, il pozzo senza memoria

Alcuni giorni fa sono stato a Vermicino, frazione di Frascati, a pochi Km da Roma. Mi trovavo in zona. Erano giorni che mi frullava nella mente il ricordo di Alfredino Rampi, del maledetto pozzo artesiano in cui morì e di quei tragici giorni di giugno del 1981. Giorni in cui il mondo – tutto il mondo – mi pareva essersi infilato in quella maledetta buca nella quale il piccolo cadde senza più farne ritorno.

Se ci penso, ancora oggi, a distanza di 33 anni, provo un profondo senso di angoscia e di dolore. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che quella tragica esperienza, grazie alla televisione, io l’ho vissuta, insieme ad altre 30milioni di persone, proprio come se stessi lì sul posto, a penare per le sorti del bambino e ad incitare i soccorritori durante le operazioni di soccorso per poi piangere, quando si è capito che per salvare Alfredino non c’era più nulla da fare.

Ore e ore di ansia (18 per la precisione), intervallate da momenti di speranza e di tormento, quelle che ho vissuto in diretta tv. Ho ancora impresso il volto di mamma Franca Bizzarri e di papà Ferdinando Rampi, madre e padre mediatici di tutti quanti noi bambini (avevo 14 anni di età!) messi davanti allo schermo televisivo a seguire le sorti di un nostro coetaneo. Immagini terribili. Ho ancora il ricordo della disperazione dei vigili del fuoco, della voce rotta dall’emozione dei giornalisti, del pianto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, della disperazione degli speleologi, della rabbia dei volontari, della delusione dei nani che provavano ad infilarsi in quel maledetto “occhio nero” e della sofferenza della tanta gente comune accorsa sul posto per stare vicino ad Alfredino.

Alcuni giorni fa, a distanza 33 anni, in via Sant’Ireneo, la stretta strada asfaltata che oggi fluisce lungo il pozzo di Alfredino, il mio turbinio di emozioni negative si è però acuito a dismisura alla vista di una gran brutta scena: come si evince dalle foto che ho scattato e pubblicate giù in basso a questo articolo, intorno a quel luogo di memoria mediatica collettiva non resta che erbaccia, sterpaglia e nulla più. Il niente più assoluto contenuto da una rete di recinzione.

Il “pozzo maledetto”, come lo hanno chiamato tutti, in cui Alfredino cadde e morì dopo tre giorni di lenta e drammatica agonia è oggi un luogo non curato, anonimo, freddo e impersonale, per di più ricoperto da sterpi di ogni tipo. Come se ne trovano a bizzeffe lungo le nostre periferie cittadine. Né un monumento, né una lapide, né una targa, né un vaso di fiori, né un cippo-ricordo,

né un segno tangibile di ciò che lì è avvenuto. Nulla di nulla. Solo roveti.

Possibile mai – mi sono chiesto – che quel luogo non ha alcuna traccia da tramandare ai posteri? Eppure la tragedia di Vermicino fa parte della storia d’Italia: rappresenta il primo fatto di cronaca seguito istante dopo istante da un intero Paese.

Ho letto che il Sindaco di Frascati, dopo l’indignazione di un’attenta lettrice che non ha giustamente perso tempo per denunciare a “Il Messaggero” la situazione del pozzo, si è impegnato a erigere un monumento. A distanza di 33 anni, proprio dove sta il pozzo, sarebbe un modo per dare finalmente forma ad una vicenda che è scolpita nelle menti e nei cuori degli italiani più di quanto si possa immaginare.

In un articolo apparso su “Epoca” il 27 giugno 1981, dal titolo “Alfredo il nostro rimorso”, Leonardo Sciascia, ricordando i giorni di Vermicino, scrisse: “E’ stata una notte come quella del primo sbarco sulla luna: il trionfo della tecnologia allora; la sua tragica sconfitta ora, davanti al pozzo di Vermicino. Si può andare sulla luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Ne veniva un senso di angosciosa impotenza, di disperazione”. Prendendo a prestito il grande Sciascia si faccia in modo che il pozzo di via Sant’Ireneo diventi luce e sostanza per evitare di far sprofondare anche la memoria nel pertugio dell’abbandono.

Italo Arcuri

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